Da TEATRO D'OGGI Num.1 Gennaio 1954:
- Parlano del teatro di rivista: Chiari, Rascel e Taranto
- Autore: Luigi Cocheo
Parlano del teatro di rivista: Chiari, Rascel e Taranto
Nel corso della nostra inchiesta sul teatro di rivista abbiamo sentito prima iI parere d'un capocomico: Remigio Paone; quindi d'un sindacalista: Ferdinando Trezzi. Ora abbiamo creduto opportuno interrogare alcuni attori fra i più noti per riferire anche le loro opinioni in proposito. - Le compagnie di rivista che attualmente lavorano in Italia - ci dice Nino Taranto - sono troppe. Resta perciò difficile procurarsi dei buoni copioni. Gli argomenti della satira sono sempre gli stessi e gli autori non fanno che ripetersi. E' necessario quindi ricorrere alle attrazioni - scimmie, cavalli, pappagalli, acrobati, numeri musicali - con evidente scapito dell'omogeneità e dell'economia del lavoro. Tutti i capocomici cercano di superarsi nello sfarzo della messa in scena e relegano in seconda linea l'intelligenza, l'umorismo e l'efficacia del copione. Gìi autori, dal canto loro, non fanno che saccheggiare a man bassa il repertorio dialettale, specie quello napoletano d'un secolo fa. Le situazioni sono sempre le stesse; "La sposa e la cavalla", "La camera affittata a tre", "Il morto vivo" e tutte ie altre farse del genere sono state ormai cucinate in tutte le salse; canovacci di quattro battute, che iI comico deve sforzarsi in ogni modo d'interpretare; e tutta la rivista risente d'un certo gusto americaneggiante che la rende scialba e monotona. Se invece lavorassimo con gente di casa nostra, otterremmo molti e non lievi vantaggi; mentre oggi la concorrenza impone l'impiego di stranieri anche a chi non li vorrebbe. Il cinema ha tolto alla grande rivista le ballerine di fiIa. Tutte le mie scolare di "Anni Facili" non avevano niente da invidiare alle migliori componenti dei balletti inglesi o tedeschi. Ma nessuna di loro era disposta a lavorare in teatro. A fare le generiche guadagnano di più e menano vita tranquilla. E' c'è da considerare che a una bella ragazza il lavoro in cinematografia non manca mai. - Cosa ne pensa del divismo imperante? abbiamo chiesto. - Su tale questione non posso pronunciarmi. poichè non ho mai voluto fare lo scritturato. Ho rischiato sempre del mio e penso che ogni comico sicuro di sè dorebbe fare altrettanto. I prezzi delle poltrone sono già troppo alti e debbono sempre più elevarsi man mano che si procede nella corsa alle paghe. I primi sintomi della crisi già si avvertono e io sarei curioso di vedere, alla fine della stagione, quali compagnie riescono a chiudere il bilancio in attivo. Una cosa è fare lo scritturato e altro è correre l'alea di rimettere di tasca propria. Ritengo pure che sia illogico creare dieci grandi compagnie e nessuna formazione di portata più modesta. Un fenomeno del genere si verifica a causa dell'esistente corsa al divismo, perché nessuno intende più far la gavetta. Credo che il problema per mantenere in vita la rivista possa riassumersi nei seguenti punti: 1°) Scelta accurata dei copioni e ricerca di nuovi attori capaci e intelligenti; 2°) riduzione dei grandi complessi a un massimo di tre o quattro; 3°) creazione di un certo numero di compagnie teatrali di più modesto impegno; 4°) istituzione di scuole di ballo; 5°) maggiore coscienza teatrale e maggiore responsabilità da parte di chi si occupa della rivista, con conseguente eliminazione di tutti gli speculatori che attualmente imperversano in questo settore. La maggiore colpa dell'attuale situazione deve essere attribuita al cinema e alla radio che "lanciano" gente del tutto priva di capacità artistiche. - Crede quindi che la crisi della rivista diverà sempre piiù acuta? - Indubbiamente, se saremo costretti ad andare avanti di questo passo. Lasciato Nino Taranto. abbiamo voluto interrogare Walter Chiari; ed ecco quanto ci ha detto, mentre si preparava ad andare in scena ai "Satiri". - La rivista, com'è attualmente, si sta avviando verso un vicolo cieco, tanto che io ho sentito imperiosamente la necessità di rinnovarmi nel genere di repertorio. Mi è stata lanciata l'accusa di aver creato un teatro riservato a gente ricca e inaccessibile ai più. Non è vero. Debbo considerare il mio tentativo odierno come un puro e semplice esperimento che non poteva essere portato di colpo nei grandi teatri, dove è sempre difficile controllare le reazioni psicologiche del pubblico. Con questo spettacolo gireremo tutta l'Italia e alla fine della stagione tireremo le somme. Sono convinto che è necessario ricondurre la rivista alle nobilissime origini del teatro, perchè il pubblico sta veramente stancandosi di ascoltare soltanto i lazzi del comico o passare in rassegna gambe di ballerine. La rivista potrà trovare unanimi consensi soltanto se saprà rinnovare intelligentemente i propri testi che dovranno ispirarsi, come facevano gli antichi classici, alla vita di tutti noi e non inseguire paradossali illogiche elucubrazioni cerebrali o sopportaie comicità di cattiva lega. E sopratutto niente più attrazioni o numeri fuori programma, più confacenti al circo che al teatro. - Completa trasformazione di stile, dunque? - Sicuro. Le rivoluzioni barocche che attualmente appesantiscono i lavori hanno fatto il loro tempo. Il nostro esperimento di quest'anno ha voluto soltanto rasentare l'altro termine, e cioè portarsi allo stile più scarnito e lineare. Un giorno si troverà con intelligenza la via di mezzo e allora potremo dire che la rivista si avvierà per la sua giusta strada. E questo teatro dovrà essere satirico, comico, umoristico, moraleggiante, a seconda delle necessità; ma mai illogico, poichè dovrà derivare soltanto dall'osservazione della vita. I maestri greci possono insegnare ancora qualche cosa. Il terzo attore da noi interrogato è Rascel, la cui compagnia quest'anno, nei primi tre giorni di debutto, ha fatto incassare al capocomico la sbalorditiva cifra di tredici milioni. Anche a Rascel abbiamo rivolto Ia stessa domanda: - Crede lei che la rivista vada avviandosi verso una crisi? - Di sicuro - ci ha risposto subito - E la causa fondamentale è che il popolo, la massa degli spettatori, rimane oggi esclusa da tali spettacoli, sia per il costo troppo elevato dei posti, sia per la mancanza di teatri forniti di attrezzature adatte. Bisogna arrivare a far sì che il pubblico non debba spendere più di seicento lire, con Ia possibilità di trovare anche postì a duecento, se si vuole che il nostro genere di spettacolo non muoia. Inquadrata com'è attualmente Ia rivista è limitata a pochi "snob" e i capocomici chiudono la stagione quasi sempre in passivo; a meno che non siano attori essi stessi. Il teatro, di qualunque genere sia, può sopravvivere solo se Io si riporta ai popolo che è un giudice schietto e sincero, un giudlce imparziale che non si lascia influenzare da mode passeggere. La passione che gode il gioco del calcìo presso le masse popolari è la dimostrazione più palese di questa mia affermazione. Quando non appassiona più le masse, qualunque genere di spettacolo è fatalmente destinato a morire; e noi siamo poprio a questo punto. Da anni non si odono più fischi o "imbeccate" nei grandi teatri, ed è il più brutto segno che si possa immaginare. Mancano inoltre i veri argomenti su cui il teatro di rivista possa tessere i suoi copioni. Non basta prender di mira gli uomini politici o basare la comicità su frasi o gesti scurrili. - Il rimedio qual'è, secondo lei? - Che gli autori lavorino di fantasia, cerchino sempre nuovi argomenti, si migliorino ogni volta e, sopratutto, limitino la propria produzione a un'unica rivista l'anno, condensando in essa tutte le loro capacità. E' necessaria, inoltre, una continua collaborazione col comico, il quale deve anche rifiutarsi nel modo più energico di interpretare un repertoiio che non sente. Nonostante i grandi incassi che si realizzano, io intuisco la crisi della rivista che non riesce a sollevarsi dalla morta gora neIla quale è caduta. Gli spettacoli sono tutti uguali e ogni autore ruba qua e là le idee, senza metterci nulla di proprio e senza preoccuparsi di cosa ne pensino gli spettatori. - Cosa ne dice - chiediamo - delle paghe in atto? - Esse sono innegabilmente troppo sproporzionate fra i vari ruoli - ci risponde prontamente Rascel. - I grandi divengono ogni giorno più esosi e gli altri artisti debbono sempre più ridurre le loro pretese. Anche in tal campo bisognerà arrivare a un livellamento. - E che ne pensa dell'avanspettacolo? - Assisto con dolore al suo decadimento. Io ho lottato come ho potuto per le rivendicazioni della categoria e non ho esitato a portare personalmente queste rivendicazioni ai gestori dei grandi circuiti cinematografici. Mi hanno risposto che dovevamo esser noi comici ormai arrivati a ritornare all'avanspettacolo dando cosÌ la dimostrazione non solo della loro cattiva volontà, ma anche della loro incomprensione; poichè l'avanspettacolo deve costituire un vivaio di artisti e non soltanto un inesauribile fonte di lucro per i programmatori. - E quale potrebbe essere una risoluzione del problema? - Penso che i grandi capocomici, nel loro stesso interesse, dovebbero incrementare questo settore. E spero di poterlo fare io stesso un giorno, quando mi ritirerò dal teatro. Potrò portare al popolo, aI più genuino dei giudici, buoni spettacoli "forse grandi spettacoli" creando così I'unico mezzo valido per non far morire iI teatro di rivista. - L'intervista con Rascel è finita; anch'egli ha sostenuto gli stessi argomenti sui quali impostano il problema i suoi colleghi; problema chiaramente illustrato la volta scorsa da Ferdinando Trezzi, perfetto conoscitore del teatro di rivista in ogni suo aspetto: rinnovarsi, specie nei testi, e portar fosforo e linfa nei copioni. Ma Rascel pone la questione in termini ancora più precisi: ritornare al teatro popolare se non si vuole che la rivista cada irreparabilmente verso l'indifferenza e Ia noncuranza degli spettatori, come un paio di decenni orsono avvenne per l'operetta.
LUIGI COCHEO