Teatro alla Scala di Milano presenta:
Manfred (1980)
Poema drammatico da Lord George Gordon Byron - versione italiana e riduzione di Carmelo Bene - musiche di scena di Robert Schumann
- Interpreti: Carmelo Bene con la partecipazione di Lydia Mancinelli e i solisti Silvia Baleani, Wilma Borelli, Ennio Buoso, Carlo Del Bosco. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
- Direttore Orchestra: Donato Renzetti
- Direttore Coro: Romano Gandolfi
- Regia: Carmelo Bene
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Programma abbinato all'incisione discografica delle spettacolo (pagine 20)
- Il privilegio della dannazione (Giorgio Manganelli)
- Manfred: un rinnovamento straordinario (Gilles Deleuze)
- Il Teatro di Carmelo Bene
- Gli spettacoli di Carmelo Bene
- Robert Schumann: Manfred
- Romano Gandolfi
- Donato Renzetti
- Il testo
Il privilegio delle dannazione
Byron prese a scrivere il Manfred nel 1816, in Svizzera; da poco si era separato dalla moglie, evento drammatico e poeticamente eccitante, inasprito e insaporito da sospetti di segrete tragedie e in¬nominabili infamie. Condizione psicologica, questa, assai idonea a incrementare quel vizioso ed astuto rapporto che il poeta intratteneva con la propria immagine, di personaggio fatale, nobile e maledetto; estremo nelle azioni triste ed oneste, come si dice appunto nel Manfred. Al gusto declamatorio della dannazione letteraria il fasto solenne delle montagne svizzere forni un repertorio di immagini e di emblemi agevoli ed eccitanti, insieme sacri ed orrendi. Il Manfred venne terminato nei primi mesi del 1817: dapprima, in una redazione che includeva un terz'atto assai diverso, e più goffo - tra l'altro, il pio frate era un ribaldo da romanzo nero; persuaso da talune critiche, lo riscrisse nella forma attuale; e il testo apparve nella redazione definitiva nel giugno dello stesso anno. Pubblico e critica l'accolsero con favore, sebbene, non senza irritazione del Byron, taluno notasse derivazioni dai due Faust, di Marlowe e di Goethe. Prevalse dunque, allora, una lettura faustiana, prometeica, affascinata dalla retorica psicologica e morale del testo. Byron definì il suo lavoro “of a wild, metaphisical and inexplicable kind”: qualcosa di folle, metafisico ed enigmatico dove il metafisico include magia, bizzarria dell'intelligenza e misteriose, intollerabili emozioni. Definì il Manfred “dialogo drammatico”, avendo riguardo alla costante sfida tra il protagonista e le potenze demoniche che lo affrontano. Dichiarò di averlo pensato come poema in forma drammatica, ma di non averlo destinato al palcoscenico. A questa sua opera Byron portò, fin dagli inizi, un perplesso e dubitoso amore: prediligeva alcune parti, ad esempio la descrizione delle rovine di Roma, ma lo sospettava disordinato ed irregolare. Certo, di rado riuscì a realizzare la propria fittizia immagine in modo più aggressivo e coerente. La materia del Manfred mitologizza dei contenuti privati, psicologici, esalta a grandezza e magniloquenza fastosa una storia segreta; in essa Byron realizza una delle ambizioni demoniche del suo personaggio, essere insieme clandestino ed esibizionista, degradarsi pubblicamente in una cerimonia di superba esaltazione. Tutte le contraddizioni byroniane sono violentemente e talora crudamente esasperate. Manfred è un mago, che, grazie all'implacabile esercizio di una atroce volontà ed una scienza potente ed empia, ha appreso a comandare agli elementi, tiene schiavi i demoni, e sa sfidare i signori delle tenebre. Ma il suo cuore alberga una sofferenza che nessuno può lenire: un fascinoso rimorso, aureolato di ingegnose reticenze, di allusioni ad un evento terribile, ad un peccato orrendo, ad un amore che uccise. Tutto è vago, avvolto da esclamazioni, ed declamazioni, gesti drammaticamente angosciosi. Ma l'oratoria teatrale vela e svela una confessione aspra e penosa. Astarte, la creatura misteriosamente uccisa e che egli, con l'ausilio delle potenze infernali, riesce a strappare per breve istante all'abisso della morte; la compagnia delle sue fantasie e delle sue ambizioni, nasconde il volto della sorellastra e di Byron, Augusta, cui questi fu legato da una passione che aveva tutta la sinistra eleganza letteraria di un peccato imperdonabile: ed a codesta sospetta relazione incestuosa si attribuiva la decisione della moglie di separarsi dal poeta dopo breve esperienza matrimoniale. Potremmo considerare il Manfred un dramma di espiazione: non fosse così dispiegata la passione mimetica per il peccato, il gusto dell'ornamento diabolico, infine l'esibizione del proprio male con un accanito amore per la piaga, tanto più nobile quanto più il suo orrore rende demonicamente privilegiato colui che la esibisce, e che da essa è condannato alla solitudine. Opera di acre, anche angusto romanticismo, fitta di tutte le allusioni, i temi tipici del byronismo della prima maniera - la maledizione divina, il cuore riarso, la magia inane contro il dolore, l'onnipotenza delle passioni, il peccato inesplicabile, la magnificenza e nobiltà della dannazione - questo poema drammatico forse non è di agevole accesso al lettore ed allo spettatore di una civiltà alimenta¬ta da diverse immagini. Inutile cercare in questo testo il facile commercio col personaggio; Manfred è un simbolo mentitamente morale, una invenzione vocale, una magica larva, non diversamente da quelle vaghe, prodigiose forme con cui ininterrottamente dialoga. Possiamo dire che il Manfred aspira a presentarsi come una visione, in cui il protagonista, avvalendosi della potenza del male che lo segna e in qualche modo lo illumina, eccita le forze del cielo e dell'abisso; Manfred non è una persona, ma una formula, un incantesimo. La materia della favola, nomi e sentimenti, è una costellazione di spettri senza ombra. La qualità del testo che più diretta e violenta giunge fino a noi, al di là delle figure retoriche e delle convenzioni passionali di un linguaggio arcaico, è l'intensità verbale; e con ciò non si deve intendere una arguta concentrazione dell'espressione, una sottile aggressione del linguaggio, che, anzi, in Byron è di limitata articolazione, ma piuttosto una sorta di violenza fisica, una pressione massiccia, una grandezza anche vanitosa e minatoria; violenza non di rado ripetitiva e torbida; bruciante di esclamazioni, di vocativi, di perorazioni. E tuttavia noi avvertiamo la pressione fonetica con cui investe l'ascoltatore. Agisce, insomma, come un gesto cui l'imprecisione non toglie la qualità simbolica di ira, o rancore o disperazione.
GIORGIO MANGANELLI